Deciso: partecipo a una gita con il bus. Il programma prevede che i gitanti non sappiano di preciso dove si andrà, di sicuro c’è un pranzo con sushi a volontà e a seguire una mangiata di fragole direttamente dalle piante. Dopo una levataccia si aspetta il torpedone a Shinjuku, l’autista arriva in ritardo e si scusa, ha il fiatone, non capisco perché, e chiede alla nostra guida -una signora sulla cinquantina- dove deve ci deve portare. Comincio a pensare che questa domanda sia parte di un siparietto concertato. Ci danno un adesivino da applicare alla giacca, ora siamo un vero gruppo di turisti giapponesi. Ero sicuro che mi sarei trovato in mezzo a persone di età da orizzonti sereni, aspettativa erratissima: sono quasi tutte ragazze sotto i 30 in gruppi di due amiche o madri con figlia. Sono tra i pochissimi maschi.
Si parte, costeggiamo il monte Fuji in una giornata luminosissima, brillante, percorriamo 180 gradi attorno al cono austero e quasi mistico. A seconda dell’esposizione i lati del Fuji sono innevati in modo diverso, le pendici hanno un profilo che varia a seconda della posizione da cui si guarda. Non c’è niente da fare, viene voglia di fotografarlo o disegnarlo da ogni possibile angolazione.
Durante il tragitto continuo a ricacciare la paura che si cominci a parlare di pentole inox, ma questo non accade.
La prima tappa (dopo ovviamente una sosta nell’autogrill) è Miho no Matsubara, un posto molto bello con una pineta, un santuario e una spiaggia che è il teatro di una leggenda. Un angelo pare che sia disceso qui attirato dal colore dorato della sabbia. La storia è stata ripresa anche nel repertorio del Nou. Adesso la sabbia che rendeva questo posto così speciale, che era dilavata da un fiume, non arriva più a causa della costruzione della massicciata per lo shinkansen. La spiaggia è vulcanica, nera, e l’industrializzazione ha portato una serie di chiatte-gru che si interpongono tra me e il Fuji.
La seconda tappa è il pranzo di sushi. I pezzi arrivano a vassoiate, se ne mangia quanto se ne vuole, troppo sicuramente. Il tutto procede con fermate obbligate in posti poco significativi se non per gli acquisti di souvenir. Io compro solo dei boccioli di sakura sotto sale (sì, i sakura sono anche un cibo) da dei ripiani sulla strada con accanto la scatola per mettere i soldi. Un negozio self service, insomma.
Alla fine si arriva alla serra delle fragole. Veniamo sguinzagliati tra i filari pieni di fragole maturissime dolci e sugose. A questo punto mi chiedo quanti miei compagni si rendano conto dell’allusione spudorata, un campo di fragole (anche se non per sempre) e un tour misterioso (ancorché non magico), non fa venire dei dubbi?
Sulla strada del ritorno penso che l’ultima volta che sono salito su una corriera in gruppo deve essere stata in qualche gita, con qualche coro che partiva o le audiocassette che venivano passate di mano in mano dalle ultime file fino al cocchiere e la prof che chiedeva “non è roba sporca, eh?”.
Un giro in bus divertente che non farò più
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