Stavo per decidere di non andare a questa mostra e il motivo è molto semplice: l’avevo già vista in tutte le salse sui social, in particolare su instagram. Le persone che seguo c’erano andate a frotte e si beavano dei cuori che la fotogenia del posto attirava, poi sono cominciati gli annunci sponsorizzati. Belle foto, devo dire, ma sarebbe valsa la pena andare fino a Odaiba per vedere il tutto dal vivo? La risposta ancora adesso non la so, ma per andarci ci sono andato. La mostra è fatta dal team lab, un collettivo di artisti che producono arte digitale di vario tipo, principalmente proiettata su muri e altre superfici, variamente interattiva. Alcune cose sono veramente belle, in particolare gli ambienti completamente immersivi in cui perdersi nell’illusione di essere davanti a veri fiori, cascate, foglie e ambienti naturali psichedelici mentre si è in un capannone industriale enorme che di naturale non ha niente, e anzi sorge su un’isola anche lei artificiale. In alcune zone l’esposizione sembra una stanza degli specchi del luna park o una casa degli orrori, non nella forma ma nello stato di oblio in cui cerca (spesso con successo) di trascinare il visitatore. Le cose più stimolanti sono dei quadri digitali di animali chiaramente ispirati a quelli Ito Jakuchu che si scompongono in petali muovendosi lentamente. L’elefante, la tigre e il pavone hanno un alto coefficiente di giapponesità, come anche le animazioni dei caratteri che compaiono come tracciati da un pennello invisibile. Alcuni ambienti funzionano molto bene, altri meno, e qui devo rivelare un fattore che finora ho omesso di proposito: la massa di gente che invade ogni angolo di questa mostra. Sono sicuro che non è stata pensata per sopportare questa invasione, non è possibile godere del mistico cambio graduale di forme colori atmosfere musiche in mezzo a famiglie vocianti studenti coppie che cercano la foto perfetta e altra gente che aspetta il proprio turno per scattare esattamente la stessa foto. Tutto questo nonostante ci sia un numero chiuso di biglietti venduti solo on line per la giornata, ma evidentemente è un numero chiuso troppo aperto. Solo per entrare, la fila di un chilometro richiede un’oretta, poi dentro si cerca invano un angolo senza viavai di gente e, per completare il senso di frustrazione, per visitare una singola sala (quella delle lampade) c’è quasi un’altra ora di fila all’interno della mostra stessa. Ripenso alle fotografie viste prima di entrare e mi nasce il sospetto che tutto l’allestimento tenga molto alla fotogenicità e all’attrattiva social delle opere. In questo potrebbe essere molto avanguardistica come mostra: più godibile sui social che dal vero. Si esce con qualche bella impressione ma forse vince il senso di claustrofobia sicuramente non previsto dal team che vuole abbattere i confini. Qui i veri confini sono lo spazio altrui. Les frontières sont les autres.
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