Sono passati 8 anni da quel pomeriggio, la successiva notte di angoscia, i giorni e le settimane di paura e incertezze. Per chi era in Giappone terremoto e maremoto hanno cambiato molte cose, spesso la vita e l’approccio alla stessa. A differenza di molti ho sempre trovato tremendamente più destabilizzante pensare alle vittime del maremoto piuttosto al disastro della centrale nucleare di Fukushima. Forse perché le radiazioni non si vedono mentre la terra invasa dal mare, il fango che trasporta case, paesi e vite è sconvolgente. Tanti si infervorano per gli errori di progettazione della centrale, per i pasticci combinati nella gestione dell’emergenza, ma in tutta onestà non ne so abbastanza e in fondo si tratta delle decisioni di poche persone, anche se importanti. Le storie che ho sentito e visto di chi si è salvato scappando fortunosamente per poi scoprire di aver perso tutto, i paesi risucchiati dal mare, gli asili in cui bambini non sono più tornati, tutto questo mi colpisce di più. E allo stesso tempo mi porta uno strano senso di compassione e comprensione. Forse sono tra le poche persone che ha deciso di rimanere ad abitare in Giappone non nonostante lo tsunami, ma anche perché ha visto cosa è successo dopo il disastro. Notare la quasi assenza di panico, il senso di comunità e di rispetto delle regole e degli altri è stata una rivelazione, mi ha consolato. Ho capito che vivere qui (o vivere in generale, in fondo) è così: essere sicuri dell’arrivo dei disastri significa essere pronti, con tutte le eccezioni dell’essere umano. Per me è stato come aggiungere un nuovo strato di senso al termine “società”.
Ancora qui a ricordare, 8 anni dopo
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