Trovare un edificio a Tokyo, conoscendone l’indirizzo, è un’impresa che può essere complicatissima e frustrante. Per questo motivo esistevano (stanno lentamente sparendo) sparsi qua e là nella città dei pannelli di ferro con le mappe del quartiere dettagliate a tal punto che sul rettangolino della casa era scritto il cognome della famiglia che la abitava. La città giapponese è difficile da navigare, specie per un europeo: l’indirizzo parte dal municipio, poi specifica una zona più ristretta e infine un banchō (il numero progressivo di una insula), a sua volta suddiviso da una numerazione poco logica. Le strade non hanno quasi mai un nome. Se avete provato a cercare un indirizzo veneziano sapete un po’ di che si tratta.
Fino a prima che tutti camminassero con un navigatore satellitare in tasca, per trovare un luogo, arrivati alla stazione della metropolitana si imboccava l’ufficetto di polizia (kōban) locale e si chiedevano lumi su come raggiungere la meta. Invariabilmente il poliziotto squadernava un atlante stradale variabilmente consunto alla pagina in cui ci si trovava e si veniva guidati dal dito lungo svolte, semafori e passaggi pedonali saltando alle pagine seguenti senza soluzione di continuità. Quei libri con pagine e pagine di mappe interconnesse sono pubblicati da una ditta che è nata nel Kyushu settentrionale e si chiama Zenrin. Qualche giorno fa ne ho visitata la sede qui a Tokyo: è un posto meraviglioso dove ho potuto mettere le mani sulla libreria completa, l’opera omnia che contiene tutto il Giappone mappato. Sono saltato dai quartieri popolari di Asakusa alle stazioni di Osaka ai villaggi sperduti delle isole dimenticate: tutto è reso con una attenzione ai dettagli e un design fenomenali.
Di alcune stazioni sono mappati anche i piani sotterranei con i negozi e le uscite, le case dei quartieri residenziali indicano il nome di chi ci abita stampato sopra. La pubblicazione è aggiornata annualmente, in modo da inseguire i cambiamenti che soprattutto nelle grandi città sono vertiginosi, con sconvolgimenti radicali nella conformazione di quartieri interi. «Ma come è possibile tenere testa alle variazioni in modo così puntuale? Ricevete informazioni dal comune o dalla polizia?» Chiedo ai responsabili. No, mi spiegano che al contrario spesso la Polizia si avvale delle loro informazioni e il lavoro di aggiornamento è fatto da un piccolo battaglione di impiegati che girano a piedi per i quartieri da mappare e controllano se ci sono cambiamenti nei dati già immagazzinati: nel caso si aggiorna la mappa sul tablet inserendo la forma degli edifici, il numero dei piani e il nome della persona o dell’ufficio che la occupa.
Seguendo uno di questi cartografi urbani (il gentilissimo signor Sunakawa) mi sono infatti accorto che a Tokyo ogni edificio ha all’ingresso una targa con tutte queste informazioni. «Passando con una macchina e facendo delle semplici foto difficilmente si riuscirebbero a raccogliere queste informazioni in modo preciso, ci vuole l’occhio umano», mi dice. «Ogni giorno, a meno che non ci sia un tifone o una tempesta di neve, io esco e compilo. Adesso con questo tablet è comodo, ma fino a un po’ di tempo fa usavamo i fogli di carta e con la pioggia si bagnavano».
Torniamo all’ufficio e un altro impiegato mi fa vedere il file in cui sono raccolti tutti i dati usati per le mappe, una risma quasi infinita di livelli selezionabili da cui nascono le loro pubblicazioni. Per spiegarmi bene il livello dei dettagli il ragazzo al computer seleziona solo le scalette di pietra, una presenza tipica di alcuni quartieri, e così ho la visione d’insieme di questo elemento architettonico nel quartiere di Yoyogi.
Nella seconda parte del segmento (sì, queste visite sono avvenute durante le riprese per un servizio esterno di un programma TV a cui partecipo) sono andato a visitare una stazione dei pompieri. Da bambino ero appassionatissimo di mappe e di atlanti in cui mi perdevo in pomeriggi interi, e come moltissimi bambini (in prevalenza maschi, sospetto) ero affascinato dalla figura del pompiere, quindi l’accoppiata cartografia+vigili del fuoco mi ha galvanizzato.
Essendo un paese costitutivamente piagato da incendi e disastri naturali, il Giappone ha un rispetto estremo per i pompieri, che hanno uno status speciale e seguono una disciplina ferrea simile a quella dei militari. Una volta ho visto un servizio televisivo in cui, durante una esercitazione in un ambiente invaso dal fumo, un giovane pompiere si stava sentendo male al punto di perdere conoscenza e il suo superiore lo prendeva a schiaffi forti per farlo rinvenire, gridandogli contemporaneamente contumelie in modo aggressivo.
I vigili del fuoco sono stati una delle prime forme di organizzazione cittadina e già in epoca Edo erano organizzati in corpi locali pronti ad agire tempestivamente allo scoppiare frequente di incendi. Nel periodo di capodanno alcune caserme offrono al pubblico delle dimostrazioni di destrezza nell’arrampicata sulle scale arrivando a lambire l’equilibrismo circense.
I vigili del fuoco di cui sono brevemente ospite mi mostrano la procedura seguita quando arriva una chiamata: scendono, indossano l’attrezzatura e il conducente del camion controlla l’indirizzo a cui andare. Lo fa utilizzando una delle famose mappe stampate, nel suo caso un volume personale su cui ha segnato con i pastelli colorati i punti di riferimento più importanti per divincolarsi nel dedalo di strade. L’attrezzatura elettronica può subire dei guasti, i navigatori impallarsi, ma la carta tende a non tradire mai, non ha bisogno di energia elettrica e la scala invariabile aiuta a memorizzare meglio il percorso e a visualizzarlo nella testa. Ci dilunghiamo a parlare. Io chiedo dettagli sull’attrezzatura che hanno addosso, noto che hanno un dissipatore di caduta, come quelli che si agganciano all’imbracatura quando si va sulla ferrata, e in quel momento arriva una chiamata vera. Si scusano, mettono in moto il camion rosso fiammante, fanno un rapido controllo e partono a sirene spiegate. La parte dentro di me che ancora non ha ancora completato la licenza elementare rimane a guardarli eccitata, estasiata.
Dopo un po’ li vediamo tornare, parcheggiare nello spiazzo della caserma e, prima di togliersi le giacche ignifughe, gettarsi del sale addosso a vicenda: è un rituale di purificazione e mi fa capire che durante l’intervento si sono imbattuti in un corpo da cui l’anima si era separata. Terminiamo le interviste e le riprese, chiacchieriamo un po’ di come sia percepito il pompiere in Italia: «è un eroe come negli Stati Uniti?», mi chiedono. Rispondo che da noi c’è forse un po’ meno retorica che negli USA e un approccio meno militaresco che in Giappone, ma il rispetto per chi salva le vite degli altri è uguale. Per non parlare dell’amore un po’ infantile e incontrollabile per i camion rossi, le sirene, il coraggio e direi anche la padronanza nel leggere le mappe.