Negli ultimi 8 giorni ho scoperto ben due localini a Shimokitazawa entrandoci per la prima volta.
Shimo-Kita (abbreviazione familiare per il quartiere di Shimo-kitazawa) è una zona storicamente piena di baretti dove si suona, sale-prove per gruppi alternativi, locali dove si esibiscono compagnie comiche d’avanguardia, teatri off e qualsiasi tipo di ritrovo fuori dal flusso commerciale e mainstream.
Negli ultimi anni la zona è entrata in un turbine di ristrutturazione urbanistica e in generale mi pare che sia nel bel mezzo di una bella gentrificazione; la stazione sta diventando uguale alle decine di nuovi complessi commerciali sorti in città, e mi sembra che con la pandemia molti dei localini di nicchia abbiano chiuso.
Comunque qualcosa delle belle abitudini resiste, e la settimana scorsa sono andato a sentire un clarinettista libanese-svizzero che suonava con un chitarrista americano e una sassofonista giapponese. Il localino era uno scantinato striminzito e pieno di ricordi di serate vissute che trasudavano dai mattoni delle pareti piene di foto-ritratto di grandi della musica, principalmente jazz e pop americani. Il pubblico contava in tutto una decina di persone, principalmente uomini tra la mezza età e quella successiva, appassionati di free-jazz e rumorismo.
Ieri sera ero nuovamente a Shimo-Kita, stavolta in un diverso interrato più industriale, con pareti e pavimento di cemento armato, a sentire una artista di cui ero diventato amico pochissimo dopo il mio arrivo a Tokyo, Midori. All’epoca ci eravamo visti per qualche caffè, qualche pranzo, parlando di musica (lei è diplomata in pianoforte e già allora componeva musica elettronica), e scambiandoci CD masterizzati. Recentemente, ripulendo la casa ho ritrovato alcuni di questi CD ma non avevo niente per ascoltarli allora ho comprato un lettore di quelli a pochi soldi da attaccare al computer. Pochissimo dopo, 15 anni fa, lei ha lasciato il Giappone per trasferirsi a Berlino dove abita tuttora.
Il concerto è stato bello, Midori alle tastiere, una violista e un sassofonista. Musica improvvisata, frammenti di frasi passati attraverso effetti, pedali, delay e loop (se volete capire meglio, ecco). Bellissimo l’effetto di live painting fatto a un banco, ripreso e proiettato sulla parete e i musicisti, tutta un’improvvisazione di 4 artisti che risultava molto efficace.
Il locale ha un buon servizio bar e l’atmosfera è un po’ alternativa e un po’ esclusiva (l’ingresso era limitato ai primi 40 che si erano aggiudicati il biglietto).
Alla fine chiacchiero un po’ con Midori, anche dei vecchi tempi, del concerto che ha fatto recentemente a Udine, e mi presenta dei suoi amici conosciuti a Berlino che adesso abitano a Tokyo, uno di loro è di Pescara.
Riprendo il treno per Shinjuku nei cui anfratti ho lasciato la bici, e mi devo divincolare in un casino pazzesco perché è in corso la mega sagrona chiamata Tori no Ichi. Ci sono le bancarelle che vendono degli amuleti a forma di rastrelli tutti decorati, pieni di ammennicoli, pronti per essere appesi alle pareti di casa o più propriamente in ufficio. Servono alla cosa più importante e candidamente ammessa in tutta l’Asia: guadagnare, fare tanti soldi l’anno che viene, farli aumentare e stare bene. È pieno di gente che, come contorno all’acquisto per la prosperità, mangia e beve la roba delle bancarelle, il cibo da sagra nipponica: okonomiyaki, seppie alla piastra, spiedini con infilzata qualsiasi roba, zucchero filato. La gente beve per strada, in piedi agli angoli delle strade, camminando o seduta per terra, c’è un sacco di gente che è chiaramente impiegata nel quartiere, che è famoso in tutto il Giappone per fornire al cliente l’intrattenimento notturno. Compro anche io una lattina di birra e la bevo guardando il flusso della gente: impiegati, ragazzi a pagamento, prostitute, mafiosetti, qualche turista che va verso golden gai, ubriachi a vari stadi, gente disfatta, gente che contratta il prezzo dei rastrelli sotto le tende allestite nello spiazzo antistante il santuazio Hanazono. Per comprare questi oggetti c’è tutto un cerimoniale: si chiede il prezzo, si chiede di abbassarlo, si tira, ci si mette d’accordo, poi si paga il prezzo iniziale detto dal venditore. Questo per dimostrare che comunque i soldi si hanno, non è che si è dei poveracci che hanno bisogno dello sconto, e anche perché fare i tirchi quando si investe nella fortuna futura porta male. Tutto il business dei rastrelli è chiaramente gestito da una organizzazioncina giapponese che insomma ci siamo capiti.
Sto finendo la mia birretta in un cantone e un gruppo di gente disparatissima che sta chiacchierando rumorosamente si avvicina e alcuni di loro mi fanno dei cenni di saluto. Uno sembra appena uscito da una rissa, uno è vestito come Arale di dottor Slump, e una loro amica in ciabatte, calzettoni e parrucca viola mi fissa coi suoi occhi colorati improbabilmente dalle lenti. Attacca discorso e, pur essendo adulta, ha una parlata che in italiano tradurrei con “ciao, come ciai? cogia ciai faceggio?” Insomma un tono un po’ infantile. Dice che vuole portarmi a fare una passeggiata, che ha un po’ di tempo e lo vorrebbe passare con me. Mi fa ridere la situazione, ancora di più quando lei, incurante del fatto che io le abbia risposto in giapponese, parla coi suoi amici come se io non capissi e dice che fra poco deve andare a lavorare in un localaccio (letteralmente yabai mise), e lo dice usando una parlata normalissima.
Bene Shinjuku, per questa sera è tutto, ora di tornare a casa.
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