La brutta abitudine degli abitanti di questa metropoli mi sta contagiando: anche io comincio a considerare tutto quello che c’è al di fuori con sufficienza, meno bello, meno comodo, più povero, di campagna. C’è una parola che significa sfigato, “dasai” e salta sempre fuori quando si parla dei posti di campagna. Tutto è dasai fuori dalla capitale: i centri commerciali, i negozi, le vetrine, i vestiti, la gente, il cibo, addirittura a una provincia appena fuori dalla città è stato cambiato il nome in modo che contenesse la parola dell’infamia: dasai.
Senza accorgermene ho cominciato anche io a tirare un sospiro di sollievo quando il navigatore sulla macchina, attraversato il ponte sul fiume che separa le zone amministrative, annuncia con una piccola gioia percepibile nella voce registrata “bentornato a Tokyo”.
Secondo un mio amico che viene dalla mia stessa zona in Italia è la stessa cosa che capita a noi quando torniamo nella nostra regione, che è sempre stata delimitata da fiumi: abbiamo trasportato il senso di appartenenza da un posto all’altro del pianeta, ma questa spiegazione non riesce a farmi sentire meno snob. Questo lavoro mi farà bene; passare una settimana in un’isola lontana da dove abito, soggiornare in una città remota, nel sud più estremo dell’arcipelago principale, quello costituito dalle quattro isole più grosse.
L’aereo atterra in una luce smagliante, l’aeroporto è piccolino, combatto con il mio istinto acquisito per non giudicarlo troppo piccolo, arrabattato rispetto a quello da cui siamo partiti. Il bus porta me e un’umanità rigorosamente solo locale fino alla città, attraversiamo uno scenario potente: non c’è quasi spazio pianeggiante, e quando c’è è utilizzato operosamente per coltivarci il riso o il tè. Tutto il resto sono montagne basse, colline incombenti ovunque, ogni cosa è coperta di vegetazione: cedri giapponesi, macchie di bambù, sterpaglie, tutto è verde vivo, brillante, niente sembra in dicembre. In fondo a tutto c’è il padrone del panorama: il vulcano più pericoloso di questa zona del mondo. E’ su un’isola ed è l’isola stessa che è nata da lui, è piazzato di fronte alla baia dove sorge la città, si vede imperioso in questa giornata nitidissima, uno sbuffo di fumo e cenere lo incorona.
La camera che ho preso è piazzata proprio di fronte alla baia, lo vedo dalla finestra e dal terrazzo, la padrona chiacchierona e torrenziale mostrandomi la stanza mi spiega che ogni mattina riceverò la sua energia al sorgere del sole, e che ultimamente non c’è il problema della caduta cenere; qualche anno fa a causa del vento che la trasportava si doveva andare in giro con l’ombrello, ma ultimamente va tutto bene.
Sul ferry che mi porta all’isola non riesco a non ordinare una ciotola di udon caldi, gli spaghettoni di grano tenero in brodo. L’odore della piccola cucina di bordo invade tutta la cabina per i viaggiatori stimolando l’appetito. Anche nel terminal dei traghetti c’è odore di cibo, ma quello è più unto, mi ricorda l’atmosfera che c’era un po’ di tempo fa nella stazione della metro di Asakusa: afrori decennali di cucine con aria aspirata male che ristagnava in una mescola indecifrabile.
Dal molo in avanti, verso il mare inibbi volteggiano ossessivamente in cerca di cibo gridano (garriscono? Che verso fanno i nibbi?), poco prima di approdare vedo nel mare un gruppetto di delfini le cui pinne occhieggiano e mi salutano, lo prendo come un buon auspicio di benvenuto.
L’isola è tutta di lava e cenere sopra cui vive una vegetazione ricca: boschetti arricchiti da macchie di bambù, la scogliera nera e i pini sono caratteri tipici della costa in queste zone. Cammino lungo il mare per dei vialetti ben tenuti, spesso lastricati con piastrelle fatte di lava, tutto mi ricorda un po’ Napoli e quell’estate di quando avevo 21 anni e stavo a casa di mia cugina per fare delle gite in giornata alle isole del golfo. In particolare mi viene in mente Procida.
Nascosti ma non troppo nella vegetazione ci sono dei gatti, che non si spaventano al mio passaggio anzi quando mi vedono miagolano come a reclamare qualcosa: è chiaro che vivono in simbiosi con delle gattare, me ne accorgo anche dalle ciotoline lasciate in posti strategici. Camminando poi incontrerò le fornitrici del cibo e mi chiederò: ma perché questa tipologia di persone ha sempre così poca cura per il proprio aspetto? E’ obbligatoria la sciatteria estrema se si vogliono nutrire nutrire i felini?
Cammino e misuro l’isola con i miei passi: un’immagine molto bella ma anche un bellissimo paio di palle perché le distanze qui sono perfette per essere brevissime in macchina ma eccessive per farle piacevolmente a piedi. Dovrò pensare a qualche mezzo di trasporto per i prossimi giorni.
つづく