Guardare un vulcano, pensare che grande, quanto è maestoso e poi rendersi conto di essere all’interno di una caldera di un vulcano formatosi molto prima e grande centinaia di volte il vulcano che si stava guardando. Mi e’ capitato un’altra volta, e sempre su questa stessa isola del sud.
Una ragazza che devo incontrare per lavoro mi dà appuntamento in un ristorante della catena americana che fa panini con la carne, quella dei due archi. Arrivo in anticipo e lei e’ in ritardo, devo aspettare per un po’ seduto a un tavolo accanto a una finestra gigantesca. Il ristorante funziona anche da drive thru e guardando fuori si vede un parcheggio e lui, il signor vulcano. Nella luce rosata del tramonto sta continuando a fumare, spavaldo. Comincio a rendermi conto della Sua presenza imprescindibile: lo si vede a distanza di decine di chilometri, forse centinaia. E’ il padrone del paesaggio non solo perché lo domina, ma anche perchè lo potrebbe, volendo, plasmare e modificare come ha gia’ fatto in precedenza. Si sta solo prendendo una pausa.
Questo ristorante, nonostante il menù che potrebbe legittimamente fare ribrezzo, ha la vista sull’esterno più intensa che io abbia visto negli ultimi anni, e tutto questo avendo comunque in primo piano un parcheggio orribile.
In questa città la zona dei locali in cui si beve è vicino al palazzo comunale, è un ammasso di localini chiaramente eredi delle baracche fatte di lamiera dopo la guerra e successivamente rinnovate ma senza mai abbandonare l’aspetto provvisorio e caotico. Tra i buzzichetti ci sono anche negozi normali, una libreria molto carina, spazi dove hanno improvvisato un parcheggio di motorini e in un minuscolo appezzamento di pochi metri quadri dove non c’è nessuna costruzione e qualcuno ha pensato bene di piantare un orticello, lì in mezzo agli altri locali.
Entro in un ambiente che promette yakitori (spiedini di pollo) come da scritta sulla lanterna rossa esposta fuori e mi siedo al banco. Il padrone mi dice di lasciare la porta aperta perché è fumoso, sta grigliando per un altro cliente, un vecchietto. Sul menu ci sono vari piatti ma per il bere c’è solo l’opzione “a volontà”, cambia solo il numero di varietà dei liquori da cui scegliere. Opto per il piano più economico e al prezzo di una birra piccola la signora mi porta una bottiglia intera di shochu, il distillato di patate che la fa da padrone in questa zona; ne posso bere quanto voglio, e deduco che una volta finita la bottiglia me ne porterebbero una nuova. La bevanda è sui 35 gradi e normalmente si beve allungata con acqua calda, gentilmente servitami dentro un termos degli anni ‘70. La coppia di gestori guarda la televisione e parla di cene al ristorante, soldi, affari, mi servono il pollo, lo stufato chiamato oden e poi chiedo i ravioli bolliti che arrivano immersi in un brodo di pollo che ci voleva proprio. Mi spiegano che su quest’isola non si usa il sake (quello che normalmente si chiama nihonshu), non ci sono produttori, qui non si fermenta, si distilla. E si beve a volontà mentre si cena pagando pochissimo per i miei standard debosciati della capitale.
つづく