Il giorno dopo, il Ferry che mi porta sull’isola attraversa la baia in una luce fastidiosamente diffusa dalle nuvole, bianca quasi accecante.
Un uomo con cui parlo al porto mi dice che prima di abitare qui sull’isola questa per lui era solo una montagna vista da lontano che buttava in aria cenere, non sapeva niente a proposito dei vulcani. Adesso ha moglie e figlia e abitano tutti qui.
Il secondo uomo che incontro è un fotografo e ha sempre subito l’attrazione delle isole: è stato in Tasmania e Islanda e poi si è stabilito nell’isola più esotica vicino al suo posto di origine, questa isola su cui siamo ora, l’isola del vulcano. Ha vissuto accanto a un anziano che era il suo padrone di casa e di cui è diventato il sostituto dei figli che abitavano lontano e non venivano mai a trovarlo. Poi l’anziano è morto, lo ha trovato lui, i figli sono tornati per litigare sulla roba e lui se ne è andato dalla casa per non farsi coinvolgere nei rapporti guasti tra fratelli. Adesso abita sempre sull’isola vicino ad altri anziani che quando il vulcano erutta minacciando di coprire tutti di magma non se ne curano: la cosa importante per loro è tenere l’orto pulito dalle erbacce. Da quando abita sull’isola fa foto sempre più raramente al vulcano, molto più al panorama che si vede dall’isola, come se il suo punto di vista e quello del vulcano si fossero avvicinati, quasi fino a sovrapporsi.
Sull’isola c’è ovviamente uno stabilimento termale, l’atmosfera all’interno è quella di un bagno pubblico di quartiere, finalmente sento dei vecchi parlare in dialetto e sono soddisfatto di non capirci un cazzo. Il nome delle terme è MAGMA (pronunciato MAGUMA) e la temperatura delle vasche fa fede alla parola, credo che siamo sui 41 gradi, a pelle, non c’è il termometro.
Uscito dalle vasche del bagno pubblico entro alla cooperativa agricoltori dove trovo dei sacchetti pieni dei mandarini tipici dell’isola: hanno circa 3 cm di diametro e sull’etichetta c’è il nome YAMADA. Un signore anziano vestito da contadino li sta sistemando nelle cassette in esposizione. Gli chiedo se questi sono i famosi mandarini dell’isola, se li produce lui e se è il signor Yamada. Mi risponde tre volte affermativamente con l’aria di chi non ha tanta voglia di essere rotto il cazzo dal primo mona entusiasta che arriva.
Torno sulla terraferma, se così si può dire di un arcipelago in cui la terraferma è solo un’isola più grande, e sono pieno di fame. Mi faccio risucchiare da un ristorante di sushi illuminatissimo, di quelli per famiglie. La qualità è superba: il tonno mi stende, poi ordino fegato di rana pescatrice, sperma di merluzzo, un brodo di pesce e miso che ha una base dolcissima, scoprirò che è la costante del condimento di queste zone.
Ho cenato presto, quindi verso le 10 mi punge vaghezza di mangiucchiare qualcosa e allora esco per andare a bere. La zona dei locali mainstream è piena di donne che dovrebbero invogliare i clienti e buttadentro di locali, dopo un vaglio scelgo un bar che promette yakitori e shōchū con un sistema di set da 4 spiedini e 2 bicchieri di distillato. Andata. Assaggio 2 tipi diversi di shōchū cui uno ha un sapore che cerca di ammiccare chiaramente a gente sfondata dall’alcolismo, l’altro è abbastanza buono.
つづく