Oggi non sono andato sull’isola. Niente ferry, niente porto, fa freddo e piove a intermittenza. Mangio in un ristorantino di ramen che mi stendono con la loro bontà fatta di brodo collagenoso di ossa di maiale. Il gusto dei ramen tonkotsu così c’è solo in questa zona di questa nazione, da nessun’altra parte sono riusciti a copiarlo. Mentre torno a casa mi accorgo di alcuni banchetti allestiti per una sagra dello shōchū: comprando il biglietto se ne possono assaggiare due bicchieri a scelta, e ti danno anche un contenitore di patate dolci da sgranocchiare, di quelle fatte a fettine sottili e cotte al forno tipo patatine fritte-non-fritte. Vengo abbordato da due personaggi locali e in pochissimi minuti siamo seduti allo stesso tavolo a chiacchierare bevendo, cazzeggiando insieme, bicchiere dopo bicchiere di distillato allungato con l’acqua calda. Incuriositi, vari anziani si avvicinano per capire con chi stiano parlando i loro concittadini, così trascorrono varie ore felici e conviviali, poi verso le 5 torno a casa, mi butto sul letto e mi alzo che sono le 8 e mezza. Visto che la giornata è praticamente sputtanata, tanto vale buttarla via completamente e da professionisti uscendo per andare a mangiare e bere. Ceno al ristorantino di uno dei tipi conosciuti nel pomeriggio, fa una cotoletta di maiale impanata e fritta squisitissima, ovviamente accompagno il tutto con shōchū che sta diventando sabbia mobile: mi risucchia col suo sentore dolciastro zuccherino-patatoso. Per la fine della serata sarò completamente nauseato, ma facciamo in tempo a fare l’ora di chiusura del locale del mio nuovo amico , passare al localino accanto, gestito dal suo compare, mescolarsi ai suoi clienti, tirare tardi anche lì fino alla chiusura, rischiare di farci chiudere dentro il palazzo, uscire attraverso la porticina-impiegati che se non ero insieme a uno di loro mi venivano a recuperare la mattina. E’ mezzanotte circa e mi trovo da solo, cerco un altro bar per guardare la finale del mondiale di calcio per il terzo posto, un evento sportivo che sento tantissimo e dal cui risultato finale dipenderà gran parte della esistenza che mi resta da vivere.
Questa città vive un rapporto di mania con il canto che ancora non mi spiego bene: la sera è impossibile camminare per le strade senza sentire a ogni metro voci che si sgolano cantando al karaoke. Scoprirò che ogni locale è attrezzato con la macchina per far cantare i clienti e tutti ci danno dentro. Il posto in cui entro non fa eccezione: ogni tavolata ha prenotato delle canzoni e ci si passa i microfoni, io mi occupo di bere e dopo pochissimo uno dei ragazzi seduti accanto a me al bancone attacca discorso. Lui è del posto e accanto a lui c’è un suo amico che viene da un’altra città, diventiamo amici da bar, chiacchieriamo bevendo e poi automaticamente vengo portato al locale successivo: un bar in uno scantinato abbastanza hip, se posso usare questo termine. Al di là del bancone la barista sembra LA giapponese di un collettivo artistico degli anni ‘80 a New York, e data l’età potrebbe anche esserlo stata. Dopo un po’ di altre chiacchiere con quelli che mi ci hanno portato e incontri con gli altri avventori, mentre c’è un anziano che mette i dischi a una consolle improbabile decido che è ora, saluto e lascio la compagnia, tanto ci siamo scambiati i numeri, ci risentiremo.