Sull’isola, dalla parte opposta al porto, ci sono i resti di un santuario sepolto nella cenere. Anzi, è rimasto solo il torii, il portale di pietra che normalmente è l’unica cosa non combustibile dell’architettura religiosa shinto. L’eruzione del 1914, l’ultima disastrosa avvenuta sull’isola, si è portata via buona parte dei villaggi sul lato orientale, ha prodotto una colata che ha unito l’isola alla costa e il torii, mezzo emerso e mezzo inghiottito dalla cenere, sta lì come monito alle generazioni. Il santuario non è più in funzione, rimangono alcuni cippi ma il centro religioso dell’isola è il santuario vicino al porto, dalla parte opposta dell’isola, quella ancora relativamente popolata.
Ho incontrato il sacerdote che lo gestisce e molte delle cose che mi ha raccontato sono arrivate come sorprese: per molti aspetti svolge delle attività più comuni a un monaco buddista che a un kannushi (prete shintoista).
Innanzitutto è figlio e nipote di sacerdoti e si occupa delle funzioni religiose dello stesso santuario del nonno. Ha studiato all’università religiosa che, non ne avevo idea, è nel quartiere dei locali notturni della mia città. Conosce bene la città, i posti dove lavoro che si è premurato di chiedermi, immagino per inquadrarmi. Nel modo di comunicare con me ho percepito una forte vibrazione ecclesiastica, tipo prete di paese: la necessità di capire la posizione sociale, l’estrazione, il percorso di studi della persona con cui si ha a che fare. D’altronde lui si occupa di vita morte e miracoli degli isolani, è lui che chiamano in caso di emergenza spirituale, quando bisogna purificare o benedire qualcosa o qualcuno, in caso di nascite o di morti. Esattamente quello che fa normalmente un monaco buddista o un pievano di campagna.
E tutti i rapporti delle persone che abitano qui hanno qualcosa di antico, come nei paesi in cui abitavano i nonni quando erano ragazzi. La gente ha quasi sempre rapporti di sangue con i vicini dello stesso borgo, c’è una sorta di solidarietà che deriva dall’assenza di comodità come supermercati e negozi, tutti distribuiscono gli ortaggi raccolti nei propri orti e l’economia di scambio quasi supera le transazioni con i soldi. Ho incontrato gente che abita sull’isola da generazioni ma anche persone giovani che hanno deciso di trasferircisi attirati dalla vita semplice e naturale che si fa, ho anche conosciuto una donna che si è innamorata del vulcano a prima vista, ha mollato tutto e si è trasferita qui. Si è talmente appassionata che ha cambiato il cognome in Kazan “Vulcano” (questa cosa mi ha ricordato tantissimo un episodio della serie britannica “Look around you”, seconda stagione, quello in cui c’è Synthesizer Patel. Se non sapete di cosa parlo provate a cercare, gran prodotto).
Gli ultimi giorni, quando ho sentito vicina la data della ripartenza, ho cominciato a percepire questo ritmo fisiologico della vita sull’isola, e mi è sembrato che mi mancasse già. L’autobus che riporta me verso il porto carica anche i (pochi) ragazzi della scuola media, indossano un casco di sicurezza in caso di eruzione, uno mi guarda da fuori dal finestrino, mi fissa prima di salire, poi una volta seduto dice ai suoi compagni “ah,quello mi sembrava un mio parente, ma mi sono sbagliato”. Deve avere dei parenti abbastanza lontani geneticamente, penso.
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Grazie e buon anno!