Io sono un immigrato, e per stare in questo paese ho bisogno, periodicamente, di presentare dei documenti, fare una richiesta e ottenere il visto.
L’ultima volta è successo questa settimana, quando sono andato all’ufficio immigrazione per ritirare il tesserino che mi permette di non essere un clandestino.
Nessuno che io conosca è contento di andare all’ufficio immigrazione, per nessuno è un impegno come un altro: andarci fa schifo a tutti.
Una volta entrati nell’edificio ci si rende conto di essere nel continente asiatico, fatto che gli stessi giapponesi tendono a ignorare quando possono. Si nota che esiste il resto del mondo: ci sono cinesi, coreani, filippini, mediorientali, turcomanni; si percepisce, spesso dopo mesi, che esiste l’Islam e le popolazioni che venerano Malcometto (come avrebbe detto M. Polo), si notano pochissimi occidentali con i quali a volte si incrocia lo sguardo e non si sa come reagire. Lo spazio è organizzato alla meno peggio: gli arredi sono vecchi e disposti in un modo che favorisce l’ammassamento disordinato. C’è sempre troppa gente rispetto alla capacità di erogare il servizio da parte degli sportelli. Le procedure comunque sono relativamente ben organizzate, piuttosto chiare anche se alla fine arbitrarie perché la concessione del diritto al visto può essere revocata senza spiegazioni, a discrezione di chi decide. Noi immigrati in Giappone siamo un corpo estraneo, amministrato meglio che si può ma con un piede sempre sulla passerella dell’aereo che ci potrebbe riportare nel nostro paese, o per lo meno fuori dal territorio Giapponese. E questo se le cose vanno bene, in alcuni casi gli stranieri che sono rimasti oltre la data di scadenza del visto sono detenuti nelle celle degli edifici dove ci sono gli uffici dell’immigrazione. In un certo senso questa detenzione è peggio di quella in carcere dove almeno si suppone ci sia un’infermeria, una idea di diritto alla difesa e la presenza di personale medico: qui no, solo dipendenti del ministero di giustizia che tendenzialmente ignorano qualsiasi richiesta di persone che che sono lì per il crimine di non possedere i documenti. Negli ultimi anni sono aumentati i casi di morte di questi detenuti, tra suicidi e assistenza medica negata. Altre situazioni disumane riguardano figli di stranieri nati e vissuti sempre qui ma che non hanno la cittadinanza e sono costretti a una vita decurtata di diritti che sembrerebbero naturalmente dovuti all’individuo.
Per quanto mi riguarda, pur non amando le visite all’ufficio visti le prendo come un’occasione per riflettere sulla condizione umana, specie quella di immigrato. E preferisco questa parola al termine-prestito dall’inglese EXPAT, in cui percepisco lo sforzo di distinguersi dalla massa di bisognosi, poveracci, non bianchi.
Il rito del rinnovo del visto è per me una piccola cerimonia simile a sukkot, quella che nel giudaismo ricorda e celebra il passaggio del deserto con la costruzione di capanne, e mi è sempre sembrato un buon modo per sentirsi di passaggio, in balia degli eventi.
Ma lasciamo perdere altri esilii e altre diaspore.
Stavolta dovevo solo ritirare il visto dopo aver consegnato i documenti per il rinnovo 3 settimane fa. Consegno la cartolina, ricevo il numerino e mi metto in attesa, ma mi accorgo subito che a questo ritmo finirò per ricevere il visto tra più di un’ora e che a quel punto sarò in ritardo per andare al lavoro. Con un certo imbarazzo vado allo sportello e faccio presente il problema, non posso nemmeno lasciare tutto lì e tornare il pomeriggio perché a quel punto girerei senza documenti. L’impiegato è seccatissimo ma con una fredda cortesia mi dice che faranno il possibile. Dopo 10 minuti mi chiamano separatamente e mi consegnano tutto specificando che stavolta si sono spinti in un’eccezione che non si deve ripetere. Sinceramente non sapevo se sperare, ma ero sicuro che sarebbe arrivata una bordata di paternalismo: è l’ingrediente predominante nell’interazione di un immigrato con le forze dell’ordine e con l’amministrazione.
I problemi che riguardano gli stranieri in Giappone sono difficili da risolvere per un motivo molto semplice: gli immigrati non votano, nemmeno nelle elezioni amministrative locali, figuriamoci che pressione possono fare sul parlamento che dovrebbe cambiare le leggi. D’altra parte gli elettori non conoscono quasi mai le storie di chi lavora qui senza avere la cittadinanza, quindi sarebbe interessante che se ne sapesse di più. Quando ad esempio ho portato una persona giapponese con me a fare il visto, è rimasta impressionata dalla la durezza degli impiegati dell’immigrazione. Per quanto posso cerco di parlare di questa condizione a chi non ne sa niente; mi pare importante che i cittadini di un paese sappiano come vive chi abita lo stesso paese senza la fortuna (arbitraria) di averne il passaporto. Io stesso non ne sapevo molto, prima di essere un immigrato.