Proprio come i nomi (ne ha almeno 3 comunemente usati) è una città che ne contiene tante, tutte stratificate nel tempo e nello spazio.
Varanasi è una (La) Città sul Gange prima di tutto, una città sacra per chi si considera hindu, un posto in cui venire in pellegrinaggio e possibilmente a morire, finendo cremato sulle scalinate a picco sull’acqua che scorre e che trasporterà via le proprie ceneri. È un po’ Vaticano, un po’ Gerusalemme e un po’ santuario che intercetta le forze naturali che convergono in questa città, che come dicono i testi sacri Purana è costruito sul tridente sacro di Shiva da cui è protetta da sempre. Sull’aereo da Dilli a qui il mio vicino di sedile è un ragazzo in viaggio con la sua famiglia dal Panjāb proprio per visitare il tempio di Viswanath, uno dei più importanti dell’India per quanto riguarda il culto Shaiva. Lo sfrutto per conversare e fugare dei dubbi su espressioni colloquiali in hindī che mi ricordo un po’ sì e un po’ no.
Passeggiando per la città di Varanasi si incontrano persone di ogni tipo: ci sono sadhu, monaci e rinuncianti vari, asceti, studenti (qui c’è una delle più importanti università del paese), turisti e religiosi venuti da tutta l’India in treno o corriera. La tradizione dei pellegrinaggi è così radicata che in alcune zone del centro ci sono alberghi e ristoranti che ricevono praticamente solo indiani degli stati del sud, con cibo tamil o di altre zone meridionali. In alcuni casi ci sono templi con divinità importate dai pellegrini stessi, scritte in alfabeti dravidici e accanto un ristorante che prepara gli idli con il chutney di cocco, in puro stile tropicale. Questa città è famosa per i sarī più eleganti fatti con i tessuti più pregiati del paese, e perciò esiste contemporaneamente un mercato parallelo e negozi che vendono paccottiglia scadente per fare dire al turista di averla comprata a Varanasi: come i vetri cinesi a Venezia.
Per salutare le divinità all’interno dei templi principali è necessario fare file di ore in una calca di gente ammassata che spinge e che conversa lamentandosi piamente e portando in mano offerte di fiori, frutta e un po’ di spiccioli. Ognuno se ne torna a casa da questi darśan con la fronte invariabilmente decorata da strisce di pasta di sandalo e canfora che rinfrescano oltre che comunicare a tutti che per quella giornata si è salutato il dio.
Varanasi è Venezia, una città sull’acqua in cui il dedalo storico di viuzze a ridosso del fiume è quasi solo pedonale, ci si perde con piacere ozioso, si sbircia negli androni di case e ricoveri per pellegrini, si fa una pausa con il tè, si evita di intruppare la solita mucca di passaggio o di venire aggrediti dalle terrificanti scimmie. Il mio ospite e amico fraterno è un veneziano del sestier de S. Marco, e le camminate con lui nelle calli di Varanasi alle 5 di mattina, magari coronate da una gita in barca, sembravano una parafrasi contemporanea delle serate passate negli anfratti di Venezia durante gli anni universitari, solo con il tè a sostituire i spris.
I ghat sono le scalinate che scendono al Gange: un ammasso di templi, palazzi, negozi, bancarelle, passanti, pellegrini, gente che si lava, fa le abluzioni, celebra funerali, passeggia, mangiucchia snacks, fa fotografie e filma materiale per i balletti su tiktok. Una cosa di cui mi rendo conto è che i venditori indiani, almeno qui, sono diventati molto meno insistenti di come erano l’ultima volta che sono venuto. Manca chiaramente l’impressione di essere considerato un grosso pollo da spennare facilmente, credo perché ormai la middle class di questo paese ha cominciato a viaggiare, spendere ed è un target commerciale molto più appetibile dei turisti occidentali che -ormai gli indiani se ne sono accorti- in India viaggiano un po’ da straccioni e tirano troppo sul prezzo.
In una delle passeggiate nelle viuzze della città mi trovo in una zona particolarmente sporca, i bambini razzolano nel fango e nell’immondizia, le bambine hanno i capelli sporchi e non pettinati, saltellano tra le cataste di legna e capisco: sono nel retrobottega dei campi di cremazione. Davanti a me ci sono dei bracieri accesi e sulle pire sono adagiati dei corpi avvolti in teli colorati sottili, trasparenti. Dopo un po’ le membra cominciano a staccarsi, una gamba in fiamme sta per cadere dalla struttura di metallo che sorregge legna e cadavere, mi guardo intorno e vedo il flusso della gente che continua a scorrere, un gruppetto di tre ragazzi (belli, peraltro) si fa un selfie usando come sfondo il Manikarnika Ghat, il campo di cremazione in piena attività, poco sotto la famiglia di un morto fa il bagno nel Gange circondata dalle ceneri che galleggiano. Mi hanno raccontato che fino a un po’ di tempo fa c’erano dei fotografi che vendevano servizi per i parenti dei defunti: ritratti dei cari estinti stampati come ricordo, e i manifesti pubblicitari mostravano i lavori fatti come esempio: foto di morti.
Una visita a Varanasi è perfetta per chiunque voglia cambiare un po’ la sua visione sul concetto di morte, riflettere su cosa significhi andarsene e rimanere, salutare chi non si rivedrà mai più. C’è un’espressione che definisce l’approccio scanzonato degli abitanti di questa città, banarsi mastī, la gioia di vivere banarsi (aggettivo di Benares).
Ogni segmento dei ghat ha un legame profondo con la storia della città e di tutta l’India. Tulsi Ghat è dove Tulsi Das ha composto il Rāmcharit manas, un poema epico dedicato al dio-eroe Rām, un testo importantissimo della letteratura hindī scritto nel 1600, una specie di Gerusalemme Liberata, anche come lunghezza (siamo sugli 11000 versi). Un’edizione dell’epoca del manoscritto, peraltro, si trova in uno dei templi sul ghat, proprio qui.
Un pensiero che mi viene (sicuramente di parte, visto che sono stato e rimango uno studente di hindī) è: perché la letteratura indiana non ha ancora avuto il posto e la rilevanza che meriterebbe fuori dal paese? Ci sono romanzi moderni e contemporanei, racconti e saggi bellissimi e facili da leggere che a stento sono tradotti in inglese, e che nessun italiano conosce. E questo vale per tantissimi altri prodotti culturali del subcontinente: l’India in occidente non ha un posto nella lotta per il soft power, nonostante sia l’origine di tanti fenomeni asiatici. Ad esempio la storia di Mario della Nintendo è chiaramente il calco del Rāmayana, così come ogni storia di eroi che devono salvare una principessa da un mostro/drago/incantesimo.
Tra gli altri, tantissimi, personaggi nati o vissuti qui a Varanasi c’è anche la principessa guerriera Rani Laxmibai, moglie del Maharaja di Jhansi che nell’800 rifiutò di fare annettere i suoi domini ai territori inglesi, prese le armi e alla testa del suo esercito fece la guerra alla compagnia britannica delle indie. Morì gloriosamente in battaglia uccisa dagli inglesi.
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